L’ora della resa, una provinciale che si atteggia a vincente

Stadio Olimpico di Roma

“Roma è una città che si atteggia a grande come se avesse vinto molto, ma in realtà ha vinto poco o niente”. In quell’intervista del 1999 Fabio Capello spiegò il mondo Roma in poche, taglienti, quanto mai vere parole. Era il primo passo per la costruzione di una mentalità diversa, partendo dalla demolizione di quella esistente, altamente limitante. E oggi, a 18 anni di distanza, quella mentalità da piccola è tornata a prevalere su quella che un tempo era considerata “Una grande sorella”.

Il derby di domenica, indipendentemente dal risultato, ci ha consegnato la faccia volgare e arrogante di una squadra, poco più che provinciale, ma che si atteggia a vincente. Una simulazione che neanche il miglior Pippo Inzaghi avrebbe mai immaginato di riprodurre in campo, un’esultanza offensiva e maleducata da parte di chi, da anni, è rimasto Capitan Futuro e il classico rosso di frustrazione a pochi secondi dal termine, con un’entrata di Rudiger in stile terza categoria senza limiti. Le immagini, nude e crude, dunque, di una Roma che non sa vincere e, cosa peggiore, neanche perdere.

Giocatori svogliati o senza palle, bravi a specchiarsi nelle proprie capacità, senza però metterle in campo al momento opportuno. Perchè questa Roma, parlano i numeri, le gare che contano le ha sempre fallite. In Champions, in Europa League, nel derby di Coppa Italia e in quello importantissimo, che valeva mezzo secondo posto, di domenica. Senza tornare indietro allo Spezia della passata stagione, perchè troppi sarebbero gli esempi di una Roma che si crede vincente ma in realtà è una perdente di lusso. L’ultimo trofeo risale alla prima stagione Spalletti, con giocatori nettamente inferiori agli attuali, ma che sputavano sangue per la causa giallorossa. Basti pensare ai Tonetto e ai Cassetti, giocatori nella media ma campioni di umiltà. Umiltà che oggi manca a tutti i livelli nella Roma: alla squadra, alla società, ai tifosi.

Discorso a parte merita il mister, che quella mentalità da provinciale ha provato a cambiarla senza riuscirci. E per questo andrà via, non perchè manca un trofeo. Non ha intravisto le basi per un futuro diverso, fatto di programmazione e regole ferree. Quelle che, tanto per intenderci, spedirebbero Totti in pensione senza troppi drammi, certi di aver avuto per decenni un campione unico, ma oramai a fine carriera. E l’ingresso a venti minuti dal termine nel derby, ne sono certo, è una dimostrazione di come anche Spalletti si sia arreso all’arroganza della piazza. Piazza che venera un campione ma dimentica il collettivo, che invece di pretendere progetti futuri, vuol costruire il domani su un ragazzo di oltre 40 anni.

E allora si continui pure a idolatrare un genio del calcio, senza dubbio, che però non fa più la differenza. Si continui pure a cambiare ogni anni 3/4 della rosa, acquistando campioni del calibro di Peres, Grenier e similari. Dimenticando la cosa più importante, che facendo sempre le stesse cose si otterranno sempre gli stessi risultati. Che, nel caso della Roma, corrispondono allo zero assoluto.

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